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Creare comunità contro la morte sociale – Claudio Bernardi

Una scena quotidiana.

Per strada. Nella mia unica uscita quotidiana di necessità. Con la mascherina. Colgo di sfuggita la conversazione di tre donne. Che mantengono la distanza sociale. Due donne sono anziane. Le conosco. Sono vedove. Sole in casa. Piangono. Da un mese e mezzo non hanno più rapporti sociali. Piangono la fine di quel cibo quotidiano di incontri, relazioni, attività che riempivano la loro giornata. Dalle funzioni religiose al cappuccino al bar. Dalla spesa alle chiacchiere in giro. Appunto. Soffrono di un vuoto disperante. La terza donna cerca di tirarle su. Grida che non si devono abbattere. Che si devono dar da fare. Telefonare. Messaggiare. Vedere quello che amano in televisione o sul cellulare. Bei consigli. Forte incoraggiamento. Ma i loro occhi rimangono laghi di lacrime. Cosa sono quattro o anche dieci telefonate in 24 ore di solitudine? Nulla.

Chiusi in casa.

L’emergenza coronavirus ha chiuso tutti in casa. È permesso solo ciò che serve alla sopravvivenza. Cibo e salute. Lavoro. Studio. Chi può online. Il web salva dalla noia della clausura con una offerta immane di informazioni e divertimenti. Soprattutto ha scatenato il boom della comunicazione col mondo esterno, con i parenti, gli amici, i conoscenti, con i propri o altri gruppi e comunità, professionali, religiose e non.  La clausura ha intensificato come non mai i rapporti interpersonali. La distanza dei corpi ha avvicinato come non mai i cuori delle persone. Sì, vero, ma se hanno le competenze e i mezzi digitali. Quelle che non le hanno? E se le hanno, ma sono sole? Quanto il rapporto mediale rende sopportabile l’assenza di relazioni e conversazioni reali?

Morti e feriti sociali

La negazione sociale per chi è fragile nel corpo, nella mente e nelle relazioni, quali danni e malanni sta provocando?
Ma anche tra coloro che non hanno grossi problemi di salute, di sostentamento e di lavoro, ma hanno complicate relazioni affettive, quali inferni nascosti e duri ha creato e crea la convivenza forzata? Che ne è delle donne vittime di violenza? Che ne è di coppie e famiglie da tempo in rotta di collisione? Che ne è di tutti coloro che vivevano grazie al supporto diretto e indiretto di parenti, amici, volontari, associazioni, cooperative, servizi sociali, comunità religiose ecc.? Che ne è e che sarà della vita di molte persone che hanno perso il lavoro o la casa?
Alla fine o al calar della pandemia quanti saranno i morti e i feriti psicosociali? Persone vive all’esterno, ma morte o traumatizzate dentro, incluse quelle che hanno perso i propri cari senza averli potuti accompagnare, salutare e piangere? Cosa si potrebbe e bisognerebbe fare per diminuire il più possibile il loro numero? La loro sofferenza?

Creare comunità.

Grazie coronavirus! La pandemia ha messo definitivamente in luce i piedi di argilla dei tre assi costituivi della nostra vita occidentale: lo Stato, il Mercato e il Privato. Senza comunità, senza senso, drammaturgia e azione di comunità non si può battere il virus. Non si può vincere la pandemia. Non si possono superare crisi, emergenze, eventi catastrofici. Alcunché.
Ne hanno parlato e ne parlano tutti, oggi, di comunità, di senso di comunità, di sforzo di comunità, di salvaguardia della comunità, di solidarietà della comunità internazionale, europea, nazionale, regionale, cittadina, di quella scientifica, di quelle religiose, di quelle locali…
Comunità vuol dire tante comunità. Vuol dire comunità di comunità. Ma esiste questa comunità di comunità? Ma sono comunità? O tutte queste comunità di cui si parla sono auspici, voglia, desiderio, implorazione di comunità? Capiamo che ci vorrebbe. Scopriamo che non ce l’abbiamo. Ma di quale comunità stiamo parlando? Perché ce ne sono di diversi tipi, da quelle al limite dell’inesistenza a quelle strettamente chiuse, settarie, totalitarie, anti tutto e tutti, integraliste.

La comunità che viene.

Qual è e come deve essere la comunità che ci occorre, la comunità che ci salva, ci fa crescere nella prosperità, pace, solidarietà e salute? Quella dove si è sani, liberi, uguali e fratelli?
La comunità perfetta è utopica, non esiste e non può esistere. Assomiglia troppo al Regno di Dio. Dunque è una meta, un traguardo, una misura infinita con cui misurare la comunità che abbiamo e che creiamo nella nostra vita.
Ma il nostro problema è non avere comunità. Non essere comunità. Avere, da secoli, messo ai margini, se non distrutto, la comunità, immaginandola come un peso e una zavorra. A tutti pensa lo Stato, a me ci penso io.
Le conseguenze dello Stato Individuale sono ben spiegate dai medici di Bergamo, dopo la catastrofe mortuaria e il collasso sanitario causato dal tornado del coronavirus.

Bergamo sottosopra.

L’esempio ci serve per capire la massima arte sociale che è la drammaturgia di comunità. Che è? Cosa una comunità dovrebbe fare e come una comunità dovrebbe agire per il proprio benessere e per affrontare le emergenze, come questa della pandemìa.
Cosa c’entra la drammaturgia con una pandemia? Bè, buona parte degli errori (certo in buona fede, ma ancor più brucianti vista la dedizione e l’eroismo di medici e infermieri) sono proprio dovuti alla mancanza di una decente drammaturgia di comunità.
Lo dicono i medici di Bergamo che hanno riconosciuto nelle pagine del prestigioso “New England Journal of Medicine” le loro “mancanze”. Cito: “Stiamo imparando che gli ospedali potrebbero essere i principali vettori di Covid-19, poiché si popolano rapidamente di pazienti infetti, facilitando la trasmissione a pazienti non infettati”.
Ma la riflessione più importante è la seguente: “I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva, una assistenza centrata sulla comunità”.
Cosa consigliano di fare? Per evitare l’affollamento degli ospedali, che dovrebbero però avere “padiglioni e operatori ospedalieri dedicati al coronavirus, separati dalle altre aree dell’ospedale”, occorre un massiccio dispiegamento di servizi sanitari come “cure a domicilio, cliniche mobili e un ampio sistema di sorveglianza, sfruttando le telecamere”[1].

Curare il corpo certo, e lo spirito?

Ma la parte sanitaria è una parte dell’assistenza ai contagiati e agli ammalati chiusi in casa. Hanno bisogno di medicine, cibo, vestiti, servizi, ma anche di una voce amica, di una videochiamata, di controllo, rassicurazione, conforto, amicizia.
Se fossi sindaco del mio paese penserei a questa drammaturgia di comunità: i medici di base che costantemente si curano dei e curano i contagiati, con a fianco forze dell’ordine, personale pubblico, preti, associazioni, volontari, cittadini, tutti ben organizzati che provvedono ad assistere malati e parenti in tutte le loro necessità. Non come succedeva al culmine dell’epidemia dove i tanti chiusi in casa si sentivano ed erano abbandonati.

Corona di fiori.

Ma non penserei solo ai malati, ma anche a tutti i rinchiusi. A quelli che stanno soffrendo maggiormente la reclusione. E chiederei a quelli che stanno bene o se la cavano di dare una mano ai loro concittadini più fragili. Certo, poi sì vanno bene le manifestazioni di resilienza, ai balconi, nei meetings ai cellulari, ma curerei molto la creatività pubblica per alzare il morale delle truppe e di tutti. Non lavorerei solo sullo Stato di polizia, le multe, le paure, le repressioni, gracchianti auto che urlano “state a casa!”, ma punterei soprattutto sullo Stato di Poesia della mia comunità. Quanta dose di bellezza, sorpresa, speranza, sorriso, illuminazione sta circolando o dovrebbe circolare tra i cittadini. E creatori e  protagonisti di questa opera di aria aperta tra i rinchiusi in casa devono essere tutti, dai bambini agli anziani. Dalle associazioni alle istituzioni.
Più bellezza e poesia possibile. Non solo via social, ma nell’aria. Per le strade vuote. Nelle sere silenti.
Come giravano le auto degli arrotini o i camion delle arance, non potrebbe girare ogni tanto una macchina con un artista che canta, o legge una poesia o diffonde nell’aria una musica allegra o getta petali di rose sull’asfalto?
E se non può l’artista, che lo faccia il vigile, un medico, uno della protezione civile.
Contro il virus della morte sociale, la solitudine, la depressione e le sofferenze e le insofferenze di chi sta chiuso in casa la cura migliore è sempre quella: creare bellezza ovunque e comunque.
E la bellezza più bella e la cura più efficace è creare comunità.
Il cui segreto è: belle azioni, belle rappresentazioni, belle relazioni.
Bello, no?

[1]    Luca FRAIOLI, I medici di Bergamo: “Troppi positivi in ospedale qualcosa non ha funzionato”, in “La Repubblica”, martedì 24 marzo 2020, p. 9.