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Fuenteovejuna, un classico del Secolo d’Oro messo in scena dalle donne gitane #CaravanNext

Dall’articolo pubblicato il 2 febbraio 2017 su La Voz del Sur

Quando piove, Rocio Montero Maya, 56 anni, trascorre la notte sonnecchiando. Si alza di continuo. Controlla che l’acqua non sia penetrato nel tetto in lamiera della sua baracca. Controlla frenetica i letti dove dormono sette figli, la sua legione di nipoti e la pronipote di sei mesi. In estate, col clima umido, caldo e appiccicoso, ratti affamati escono di notte per ottenere il meglio di un buffet di spazzatura e rifiuti. A volte mordono alcuni dei 200 bambini che vivono a El Vacie, la baraccopoli più grande e più antica d’Europa. Di notte, si vedono le luci di un Carrefour nelle vicinanze, che per anni ha impedito l’ingresso a molti degli abitanti di questo insediamento di Siviglia. Sotto, tra fango, rottame e cartongesso, c’è il cimitero di San Fernando. Una metafora brutale, un muro che richiama il muro virtuale che opprime la comunità gitana composta da circa 600 persone, 90 baracche e 60 case prefabbricate.

Sembra impensabile scappare da questo parco tematico di miseria. Qui ogni possibile ambizione di miglioramento sociale è scomparsa e la luce elettrica la si prende come si può. Quasi dieci anni fa, qui è arrivato il teatro, a offrire una distrazione. Non solo per sfuggire, anche temporaneamente, da quel pozzo di esclusione in cui i gitani di Sevilla risiedono, ma soprattutto per evidenziare e amplificare il loro grido, che chiedeva dignità. Non è il metodo Stanislavskij, né il teatro di Grotowski. La voce di questi sei zingare scorre dal loro inconscio senza premeditazione. Inconscio. Si tratta di teatro di comunità. Una forma di teatro che ha attirato molto l’attenzione con l’opera La casa di Bernarda Alba. Nel 2009, il Centro di ricerca teatrale TNT, lo spazio allestito da Ricardo Iniesta – fondatore della compagnia Atalaya –arrivò nelle vicinanze di questo insediamento marginale e decise ricreare l’universo della Bernarda Alba di Lorca a partire dalla vita quotidiana delle donne del Vacie. Il successo dell’esperienza è stato travolgente. Tanto che ora Rocío ha abbandonato i panni di Bernarda Alba e veste quelli del sindaco di Fuenteovejuna, il classico di Lope de Vega. Il testo si cala nella realtà di un mercato di zingari, pieno zeppo di vestiti, e racconta di una città ai margini della società che decide di ribellarsi contro ingiustizie, pregiudizi e abusi di potere. Si è partiti dall’immaginazione, dalla fantasia e dai contributi che queste stesse donne hanno dato.

“Questo è molto interessante e molto difficile allo stesso tempo per loro, perché improvvisamente, c’è un enorme cambiamento dal palco al ritornare alla loro baraccopoli. Ma si sentono utili e sentono di poter dare vita a uno spazio di libertà ” […]

INTERVISTA A ROCIO MONTERO MAYA, PROTAGONISTA DI FUENTEOVEJUNA
L’intervista è stata pubblicata il 30 settembre 2017 su Amarí, una rivista culturale gitana.

Cosa l’ha motivata a iniziare questo progetto, non essendo una cosa comune nel suo ambiente?

È che quando abbiamo iniziato a lavorare, non sapevamo cosa volesse dire fare un teatro. Abbiamo iniziato con i workshop e con Silvia, la ragazza che era lì. Abbiamo cominciato con un gruppo di zingare: molte se ne sono andate e alcune di noi sono rimaste perché eravamo interessati a fare quel laboratorio. Volevamo sapere che cosa sarebbe uscito da noi, perché eravamo restate chiuse dentro le baracche per molto tempo, senza poter andare da nessuna parte, e allora mi dissi: “vediamo cosa ne esce da questi laboratori…” e alla fine dei laboratori alcune se ne andarono e altre rimasero, le mie figlie rimasero, le mie cognate, qualche nipote rimase e lei [Silvia] ci propose di fare un’opera di teatro. Io ho detto: un’opera di teatro non la faccio, non so come farla… non sapevo com’era, non ero mai stata a teatro e poi gli zingari non fanno teatro, possono semmai fare qualcosa di flamenco, un ballo, qualcosa del genere, ma il teatro no. Ma poi arrivò Pepa Gamboa e disse: “sì, faremo una opera di teatro”. E io ho detto: “io?, Io non posso farlo perché non so né leggere né scrivere”. Sì, è andata così: lei ce l’ha proposto e noi l’abbiamo fatto.

Come si fa a fare un’opera di teatro senza saper leggere o scrivere? Già è difficile se lo si sa fare, ma se non lo si sa fare…

Memorizzando le cose nella testa, a memoria. Ripetevo le frasi, le ho ripetute molte volte. Quando ero a casa, le ripetevo da sola; poi andavo al Carrefour e le ripetevo anche lì, e poi lavavo e le ripetevo, e preparavo da mangiare e le ripetevo… mio marito mi ha chiesto: “ragazza ctesoro, ma cosa fai che stai tutto il tempo a borbottare?” e io “beh, non so né leggere nè scrivere, devo imparare le cose a memoria!”

La sua famiglia l’ha aiutata?

Beh, aiutarmi non mi ha aiutato, ma ho portato a casa il copione e mia figlia mi leggeva quello che c’era scritto fino a che…

È stata un’evoluzione per lei, è cresciuta come persona, perché adesso sa che può recitare e sentirsi realizzata?

Sì. Quando sono dentro al teatro, durante lo spettacolo, sì, ma non a casa, a casa sono la stessa, sono sempre la stessa … Ma quando sono nel teatro, sul palco, e la gente mi applaude, sì, sì, allora mi sento potente. Le mie figlie sono lì, con me, sono attrici e sono molto brave. Ecco, sì, mi sento potente, ma quando sono dentro la mia baracca sono sempre la stessa.

Ha incontrato qualche ostacolo nel fare questo progetto, proveniente dal tuo ambiente, dalla tua famiglia o dalle donne che ti circondano?

Non mi interessa quello che dicono, se mi dicono cosa devo fare, io dico: “fatti i fatti tuoi e lascia che io faccia la mia vita, io faccio quello che voglio. Sono io che devo decidere, nessuno decide per me. I miei figli sono felici, anche mio marito e la mia famiglia e anch’io. Non mi interessa cosa dice la gente.

Delle due opere che hanno rappresentato, La casa de Bernarda Alba e Fuenteovejuna, quale l’ha coinvolta di più?

Beh, Bernarda Alba. Mi sentivo molto orgogliosa perché quello era un lavoro più zingaro. Mi sembra più … ma anche di questo lavoro sono orgogliosa perché, anche se è un’opera tragica e antichissima, è molto bella. Bernarda Alba è un’opera molto famosa. Abbiamo viaggiato e ogni volta facevamo il tutto esaurito e sempre c’era gente che non riusciva a entrare e restava fuori con il desiderio di vedere lo spettacolo.

Cosa pensano le tue nipotine quando ti vedono recitare?

Ho detto loro che, quando non ci sarò più, devono andare avanti, non pensare a me ma a loro, che sono grandi, che sanno leggere e scrivere…che studino e facciano quello che vogliono, che diventino artiste o quello che vogliono diventare.

Se tornasse indietro e potesse scegliere, avrebbe cercato di perseguire la carriera di attrice professionista?

Sì, come attrice professionista, ma quello che avrei voluto fare era andare oltre, volevo sentirmi più potente, non come mi sento quando sto nella baracca, e che la gente vedendomi dicesse: “guarda questa donna: pensa a quello che era e a quello che è diventata ora!”. Beh, alcune persone già me lo dicono, perché quando vado al Carrefour mi riconoscono e mi dicono: “sei una grande,guarda fin dove sei arrivata”. E io dico loro: “sì quando sono lì dentro al teatro è fantastico, ma fuori no”.  

Hai incontrato molti ostacoli nel fare l’opera teatrale?

No, molti zingari vengono a trovarmi a teatro e anche i miei parenti sono venuti da Santiago perché l’hanno scoperto in TV e hanno detto: “è mia cugina, dobbiamo andare a vederla!”.Sono venuti da Santiago, da La Coruña e sono stati orgogliosi di sapere che hanno un artista nella loro famiglia.